LA DIMENSIONE METAFISICA DELL’AFFRESCO
COLLOQUIO TRA FRANCO BERALDO E PAOLO LEVI Paolo Levi: Perché a un certo punto della tua lunga carriera artistica ti sei dedicato all’affresco? Franco Beraldo: La pittura è una specie di teatro, è come una rappresentazione della memoria visiva e delle nostre stratificazioni culturali. L’affresco è la pittura più antica, la vediamo nelle chiese, nelle dimore di Pompei, nei siti archeologici, ma è anche la pittura che vedevo da bambino; sono cresciuto in un paese che si chiama Meolo e nella mia chiesa, in alto, c’era un affresco del Tiepolo. Mi sono sempre chiesto come fosse riuscito a farlo. E a dire il vero i colori di quell’affresco sono i colori della mia pittura. Secondo me la pittura a olio è legata alla rappresentazione della realtà ogget-tiva che ci circonda. L’affresco invece non si collega più al naturalismo, ma può entrare in una realtà, in una dimensione quasi metafisica. In questo senso può essere il tramite per rappresentare l’immagine del mondo che ognuno ha dentro di sé come una droga che lo sciamano prende per entrare in una realtà altra. Giorgio Vasari sosteneva che l’affresco è l’unica vera pittura dell’uomo e che introduce in una realtà immateriale metà fisica e metà spirituale. Nell’affresco la calcina brucia i colori, anche i più accesi subiscono così una sorta di spegni-mento, e questo bruciare è come evocare un ricordo a occhi chiusi, e la realtà ci appare con i contorni non netti ma sfumati: ricordiamo meglio le voci dei volti, più l’atmosfera che la precisione di un momento. L’affresco è come il ricordo, restituisce la stessa vaghezza, la stessa atmosfera evocativa.
Hai avuto dei maestri o dei modelli? Quando ho sentito il bisogno di provare la tecnica dell’affresco, mi sono rivolto all’assistente di Bruno Saetti, Paolo Scarpa. È stato un grande maestro che mi ha introdotto e accompagnato, all’inizio in maniera forse un po’ gelosa, ma poi si è dedicato a me con estrema generosità. Il primo affresco che ho eseguito è uno dei più belli, mentre lo facevo mi sembrava di saperlo fare da sempre, sembrava che uscisse naturalmente dalle mie mani. Arturo Martini diceva che gli etruschi facevano le statue con la stessa naturalezza con cui le donne fanno la pasta; ecco per me l’affresco è stato così, facile e naturale. Le pitture murali che più ho amato sono quelle del ciclo di Arezzo di Piero della Francesca. Andavo periodicamente a visitarle, sentivo un’atmosfera di pace, i colori si accordavano perfet-tamente tra loro, le forme, anche se aggressive, erano nella loro naturale collocazione dove l’artista le aveva volute, la composizione miracolosamente equilibrata.
Veniamo alla scelta dei soggetti, dove gioca-no spazi interni ed esterni. È come se ti fossi volutamente fermato al primo Novecento, seguendo la traccia del silenzio. Qui è più difficile rispondere, perché in realtà amo mol-to la pittura moderna dell’action painting di Pollock e Rothko. Ma se un artista non vuole barare, deve atting-ere alla sua cultura, non può saltare le tappe. Pollock e Rothko avevano compiuto un percorso che li aveva portati a esprimersi in una certa maniera e vissuto in tempi e ambienti diversi dal mio. Sono nato in un piccolo paese di campagna: la mia prima infanzia, il mio imprinting me l’ha dato il cielo che guardavo per ore intere. La mia maniera espressiva nasce da questi momenti di contemplazione. Ho comunque trovato naturale partire dal primo Novecento, anche se culturalmente può essere lontano dalla mia preparazione, e tuttavia indago su questi legami, che pure utilizzo.
A questo punto si apre il tema della presenza-assenza, visto che mi parli dell’affresco come oggettività e distacco, ma anche come espressione della soggettività. Così come dichiari che le tue radici affondano nella tua infanzia di paese, ma poi esprimi più o meno esplicitamente un senso di rottura e fai riferimento a Pollock e Rothko. Mi sembra dunque chiaro che esiste una tua ombra nascosta. E allora parliamo dell’ombra e della luce. Le mie nature morte si situano in una realtà di mezzo, tra l’ombra e la luce. Sui davanzali delle finestre le ombre sono appena accennate ed è questa luce di mezzo che più mi interessa, la luce della terrazza, dove la luce non è interna, dunque non interiore, né esterna, dunque slegata dalla realtà oggettiva.
Fra luce e ombra, siamo alla metafisica, è questo il tuo messaggio? Si dice: “faccio il pittore”, ed è come chiedersi: “cosa esprimo attraverso la mia pittura? E il messaggio che comunico, verrà percepito?” È questo il problema, ed è reale perché la pittura è un modo di comunicare con gli altri.
Al posto di dire gli altri perché non diciamo l’altro, visto che la tua non è una pittura che si rivolge alla massa. Gli altri non esistono, esiste solo l’altro, che è la propria solitudine di fronte al quadro. Dici bene, è evidente che l’altro sono sempre io, e che dipingere è una comunicazione tra me e me. Le mie forme sono castigate, geometriche e essenziali, devo giocare con i rapporti di luce, non è facile creare i silenzi nel quadro, è una cosa piuttosto complicata.
Il silenzio è all’interno del quadro o all’interno di chi guarda? Chi guarda deve essere predisposto a recepire il messaggio dalla superficie del tuo quadro? Non mi interessa mettere dentro il quadro la mia biografia, di fronte al quadro devo mettermi da parte. I miei sentimenti sono personali e non devono interessare agli altri. Chi guarda invece può anche interpretare con i suoi sentimenti quello che vede. Comunque il contenuto di un quadro è sempre un messaggio difficile.
Diciamo dunque che io sono il fruitore del tuo messaggio, e che il silenzio della superficie pittorica mi viene trasmesso perché sono predisposto al silenzio. Quindi il fruitore ru-moroso dentro non può capire il tuo quadro. Ma posso anche non percepire il silenzio perché mi metto in una posizione neutrale. Tuttavia un quadro non è una scheggia dello spirito dell’artista, è il suo spirito che si è posato su quel tracciato, e la tua spiritualità, se me lo permetti, non sta sulla superficie del quadro, è il quadro. In un quadro non c’è superficie, c’è l’anima. Allora ci sono solo due possibilità: o sono in grado di recepire il tuo messaggio perché sono abituato alla solitudine e la riconosco nella tua pittura, oppure sono totalmente inconsapevole, ma la carica di silenzio che avverto nel tuo quadro risveglia in me un’eco di spiritualità. Questo può essere più interessante.
Mi fai pensare a Morandi, che ripete sempre lo stesso quadro per riscoprire e rinnovare sempre la stessa ombra, la stessa luce e la stessa vibrazione. In modo simile tu ti cali ogni volta nel silenzio dell’immagine, che diventa sec-ondaria rispetto alla continua ricerca di definizione del rapporto tra superfi-cie e interiorità. Mettermi a confronto con Morandi mi sembra un po’azzardato…
Ma come lui tu sei un francescano della pittura, forse più antico perché usi l’affresco. E ancora, proponi un’alternativa alla sua ripetitività pittorica e segnica, che sarebbe la recitazione di un dramma metafisico. La tua religi-osità non è contemplativa, è la scrittura di una pagina di preghiera. Penso che l’affresco non conceda grandi ricchezze. È una pittura castigata, molto povera, i miei colori sono pochi, solo sei. Poi si impastano, si mescolano, la vera ricchezza cromatica sta nell’acqua e nella calce. Ho un’idea abbastanza personale dell’individualità artistica. L’artista non è mai del tutto padrone della sua capacità manuale e tecnica, perché se fosse così ogni opera avrebbe sempre lo stesso livello qualitativo, senza cadute. L’artista secondo me è spinto da una specie di influsso spirituale, una sorta di canale tra sé e qualcosa che lo trascende. A volte questo canale è aperto, a volte semiaperto, a volte chiuso, e se ne accorge solo quando si mette di fronte alla tela, o al muro. Non c’è un’ispirazione che arriva all’improvviso, bisogna essere predisposti a riceverla. L’artista è uno strumento che si è affinato con l’educazione, formato dal suo stesso destino, poi qualcosa agisce in lui e nasce un’opera, che poi as-sume la sua autonomia e se ne va; ci pensa qualcun altro a farle avere una vita decente.
Benissimo, vediamo ora come si può raccontare il tuo procedere, la tua elabo-razione dell’affresco, l’essenza di questo modo di lavorare. Per fare un affresco bisogna scaldare l’atmosfera, non è come metterti di fronte alla tela: la sera prima bisogna stendere la malta, l’intonaco, bisogna decidere le misure e quindi si deve avere già un progetto preciso. Di solito ci penso prima di addormentarmi. La sera prima ho dunque già preparato l’arriccio, questa malta grossolana su un intonaco di coccio pesto. I ma-teriali sono pochi e poveri: sabbia, acqua; sono gli stessi materiali che usavano già i romani, in duemila anni non sono mai cambiati. Al mattino presto stendo un intonachino leggero sull’arriccio, rifinisco la stesura con il frattazzo e su questa superficie faccio il disegno. Per farlo utilizzo una traccia, una sinopia, un cartone bucherellato, poi comincio a dipingere. La qualità della pelle dell’affresco dipende dal grado prestabilito di umidità. La calce deve essere vecchia di un anno o due perché altrimenti brucia troppo l’affresco.
La terra dunque, poi il fuoco... Il fuoco in realtà viene per primo, per la calce, perché la calce è fatta di carbonato calcio, di sassi che sono stati riscaldati e sono diventati più leggeri. Questa è la calce viva, il sasso at-traverso il fuoco e poi attraverso l’acqua. Il tutto si combina con l’aria e si ritrasforma in quello da cui eravamo partiti, il carbonato di calcio, il sasso. È questo il processo chimico...
... vorrai dire alchemico... ... certo, alchemico, perché dentro c’è anche il gesto, l’intelligenza dell’uomo e forse qualcosa d’altro. I colori sono poi particelle di terre e di ossido che si incuneano all’interno del cristallo che sta nascendo. E tutto funziona solo con una grande attenzione. L’esecuzione dell’affresco deve avvenire in una giornata, altrimenti bisogna buttare via la parte già asciutta. Molto più tardi lo strappo per motivi pratici, perché se no sarebbe difficile da trasportare; il procedimento è questo: stendo sull’affresco una colla igroscopica molto forte, da falegname, e una tela. La colla si adagia e mentre diminuisce di spessore ingloba i cristalli della superficie dell’affresco, e quindi stacca la pelle dell’affresco. A quel punto lo incollo su un’altra tela con resine acriliche, non idrosolubili; alla fine lavo la colla da falegname e appare l’affresco nella sua realtà vera e ultima. Il momento più interessante è quando si toglie la prima tela, quando si apre il sipario sull’affresco. Questa ultima operazione adesso la fa mio figlio per me, io sto lì a curiosare cosa esce, è come veder nascere un bambino, ancora legato al cordone ombelicale... È la nascita vera, non è il concepimento... L’affresco poi viene punteggiato perché ha subito un trauma, e queste piccole ferite lo caratterizzano ancora di più, fanno parte della sua stessa vita, della sua pelle e sono il suo patrimonio. Poi può durare moltissimi anni.
La scelta del soggetto ti viene d’istinto? Le scelte dei temi sono abbastanza meditate, la piramide, la palla, le uova sono forme primarie. Ma la scelta del soggetto può avere molte ragioni. È come comporre una musica, credo, si parte dagli accordi fondamentali, poi la composizione prende forma poco a poco.
Il colore per te ha una funzione simbolica, oppure agisce come un sentimen-to? È difficile rispondere perché in realtà questi due elementi dovrebbero essere uniti. È naturale che il colore in sé sia un sentimento, appartenga cioè alla sfera più profonda dell’essere, ma nello stesso tempo si esprime come simbologia, diventa un tramite espressivo. Tuttavia non accetto questo modo di teorizzare, lo trovo inutilmente intellettualistico... È comunque interessante leggere Goethe a questo proposito, ma c’è da dire che lui il colore lo sentiva veramente. Indubbiamente ora posso apprezzare il suo punto di vista teorico, per me è certamente un arricchimento, ma solo perché ho abbastanza esperienza per comprenderlo e perché sono sufficientemente vaccinato da non subirne l’influenza. Ma a un artista giovane non farei mai studiare teoria del colore. Penso anche alle teorie della Bauhaus e a Johannes Itten, che spiegava agli allievi la teoria del colore suggerendo di fare degli accostamenti fra i colori e i sentimenti. Questo procedimento faceva emergere il carattere dell’artista, ed era certamente giusto. Oggi quello che si insegna nelle accademie è tutto diverso, stiamo parlando di cose che non interessano quasi più a nessuno...
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