Nella fase di avvicinamento alla pittura di Franco Beraldo il critico si documenta su cataloghi e testi di colleghi che nel tempo ne hanno seguito e interpretato la vicenda artistica. A scorrere la letteratura critica compare in primo piano la sospensione metafisica del richiamo tematico novecentista: natura morta nel paesaggio. Dunque prende forma una linea di riflessione centrata su un’iconografia classica, rivisitata in modo intenzionale e originale. Concetti come sospensione, essenzialità, limpidezza, contemplazione, vengono caricati su una scena teatrale primaria dove ogni cosa è insieme figura particolare e forma universale: alberi e case, cielo e mare diventano icone atemporali di alberi e case, di cielo e mare. Elaborato il tema della sospensione metafisica e della riduzione formale, lo sguardo critico apprezza e mette in risalto la competenza pittorica che usa con padronanza i toni locali, una speciale chiarità mediterranea e i segreti della tradizione veneziana unita a quella novecentista, memori consapevoli di remote origini bizantine. Tutto questo depone a favore di una pittura assai composta e fiscale e il critico se ne fa una ragione. Poi va a trovare l’artista e la sua diligente ermeneutica ha un brusco soprassalto quando comprende che il severo percorso altro non è stato che una sfida continua all’autonomia del colore che alla fine approderà solitario ad un astrattismo felicemente spericolato. Incontrarlo e parlare con lui nello studio, attorniati dai sui lavori, significa comprendere che al centro del suo lavoro non è certo la citazione novecentista ma la ricerca della verità, ovvero della potestà di luce e sostanza, del colore. Tra l’icona sacra, ieratica nelle forme, non finita nei dettagli, che fu il suo incipit giovanile, e l’odierno, sorprendente protagonismo del colore, sembra esserci dunque un disegno, non calcolato ma fermissimo nel desiderio di sperimentare e sfidare ogni sorta di epifania cromatica. E dunque entriamo, meno armati di cognizioni e più curiosi, nel vivo della sua ricerca. La biografia artistica di Franco Beraldo appare, sino ad oggi, come una continua dialettica tra polarità divergenti. Da un lato troviamo la fissità icastica, l’alta definizione di forme e spazi ben poco suscettibili di alterazioni espressive; dall’altro si dipana un corso più libero, più sensibile che sfocerà, con matura innocenza, nei dipinti e nei vetri dell’ultimo periodo. In principio egli ha evocato, in modo chiaro e distinto, la “natura morta” con gli oggetti dipinti in negativo, per via di assenza. Le sagome sono appena delineate, come forme senza volume, come canone senza espressione, impronte, calchi di sola luce disposti in un certo ordine spaziale. Se non fosse per l’estrema politezza formale il pensiero correrebbe, come è stato fatto, a Semeghini o ai maestri chiaristi, ma pare davvero una forzatura. Non si tratta di una sottrazione per via di stesura, di estenuazione del colore; ma di una depurazione condotta per via di pensiero, un approdo alla dizione formulare irrelata che nomina le cose ma non le racconta. La controprova della dimensione intellettuale di questa produzione è l’impiego di colori freddi e l’assenza di inquadratura: le forme degli oggetti sono sospese nel vuoto, collocate entro un unico piano che si qualifica subito come la superficie bidimensionale della tela. Niente colori caldi, nessuna distrazione, nessun rosso. “Un tubetto di rosso mi durò trent’anni”. Beraldo aboliva l’espressività a favore della concentrazione, della ricerca condotta su una pittura purificata, privata dei suoi effetti, delle sue vanità. Dunque un esordio che è stato del tutto sperimentale: come se l’artista stesse mettendo a punto il suo diapason creativo per dare il tempo e gli accordi alle composizioni che verranno. Più che di rappresentazione si trattava di una forma di meditazione su un tema che è stato fondamentale nella storia dell’arte e che diventerà ricorrente nella produzione di Beraldo. Egli usa di quel canone in modo castigato e strumentale. Proprio perché non attiri attenzione su di sé, porta al grado minimo di percezione il dettato pittorico: niente deve intromettersi tra il pittore e la tela, niente tra l’osservatore e il dipinto. Si riparte dalla semplificazione estrema, dal silenzio. E’ opportuno insistere su questo primo momento perché nel simulacro di un tema canonico, la pittura appare spoglia, di una purezza disadorna, docile seppur adamantina (anche in senso minerale). La stessa cosa accade per il paesaggio dove stavolta è il colore, come luce e come pasta, a farsi oggetto di verifica, in una soluzione di sintesi che i critici, a ragion veduta, hanno definito morandiana. La veduta, perché tale è l’inquadratura del dipinto, appare subito come incastro di forme visibili trasformate in superfici pittoriche: case, alberi, alture, mare, cielo, diventano campiture cromatiche, dentro le quali tuttavia il colore palpita, si manifesta come superficie sensibile. A differenza della natura morta, il paesaggio è consustanziale alla pittura. Il paesaggio moderno è una forma di pittura intimamente analogica, senza linea e divisione netta tra i piani. In realtà i confini tra le pezzature mantengono un filo di scarto assimilabile alla linea, che riemergerà in modalità cubista, libera e gestuale, nei dipinti di transizione verso l’ultima stagione astratto-informale. Nei paesaggi degli anni ottanta si coglie nettamente la trasformazione della visione in composizione, dove i piani diventano quinte cromatiche significanti e la manualità del tracciato pittorico non si nasconde ma accompagna lo sguardo. Due olî del 1985 scandiscono due ipotesi diverse di verifica: l’una più metafisica, l’altra più naturalistica. Il primo (L’attesa, 1985) è un paesaggio siciliano in cui si scorge una citazione dechirichiana, sia di tipo iconografico che stilistico. Il secondo (Il mare a Terrasini, 1985) è un paesaggio marittimo toscano con due grandi case sui toni del rosso. La varietà dei verdi, degli ocra e dei bruni che si assiepano nella parte del paesaggio di terra, segue un andamento declinante verso il mare manifestando la propria natura pittorica nella pennellata corsiva, mentre il mare e il cielo oppongono, al limitare dell’orizzonte, due piani conclusivi di bicromia azzurra. Entrambi i dipinti più che sul paesaggio, lavorano sull’autonomia della pittura: l’una nel senso più letterario e metalinguistico, l’altra più compositivo. La dicotomia procede: nel dipinto La terrazza della memoria del 1987 avviene un’ulteriore verifica: la citazione metafisica rimane, ma i piani cromatici si scaldano, si animano, mentre nella natura morta sul tavolo compare un elemento più libero, più segnico, non ingabbiato in una forma netta, indizio di un’interiore dialettica tra le due dimensioni e di uno sviluppo futuro. Tuttavia, in quel momento, l’aura metafisica è ancora prevalente, anche se il moto interno delle stesure cromatiche appare assai vitale, persino il mare, in Paesaggio (1990), si fa ondoso, il cielo stellato e gli stessi oggetti mostrano una fusione tonale più mossa. E’ un quadro pittoricamente turbato, spia di mutamenti in altre e opposte direzioni. Tale crisi della compostezza mostra un ulteriore passaggio nel dipinto Natura morta nel paesaggio del 1997 dove ai bordi esterni dell’inquadratura, che si apre sul paesaggio marittimo, figurano due profili arborei che sembrano i lembi irregolari di uno strappo. In questo quadro indiziario, anche le superfici delle forme più definite sono in subbuglio: il colore palpita e l’intimo sommovimento produce una luce nascente, un chiarore aurorale nella trama delle pennellate che allude a una fecondità segreta, inarrestabile. L’incontro tra i due piani e l’avvicinamento della natura morta alla vitalità pittorica dei paesaggi, scioglie l’aplomb metafisico. Beraldo dichiara sin d’ora, proprio nel momento in cui la rimemora, la totale pretestuosità della citazione: la sua pittura non mira alla rinascita di stereotipi, ma a scoprire l’anima segreta del colore. In questo scenario i paesaggi che possiedono tratti “morandiani” appaiono, sulla distanza, come l’altra faccia della ricerca nella quale si va esercitando la componente romantica sulla via di una riduzione mimetica che dei volumi esalta i piani e delle forme naturali prosciuga le ombre. In questo processo è fondamentale la tecnica. In precedenza Beraldo aveva lavorato sulla carta con l’acquarello. Il colore sulla carta è autentico, quel medium povero restituisce la sincera evidenza del colore, la sua luce intatta. L’approdo all’affresco è prodotto da una medesima volontà di ricerca, di sperimentazione. Le prove di buon fresco degli anni novanta sono centrali nel percorso artistico di Beraldo, tanto che i critici che hanno scritto su di lui, ne hanno tenuto conto come del baricentro della sua poetica. Ma non v’è nulla di compiacimento tattile, di effetti di superficie. “L’affresco è aristocratico” ci dice, “è imperituro, capace di millenaria solidità, nasce con l’uomo che lascia traccia di sé”. Racconta dell’incanto di un Cristo pantocrator ammirato in una grotta nel brindisino, nei pressi di Mesagne, con l’acqua che gli scorreva sopra eppure non ne intaccava l’antica, ermetica, potenza. Racconta dell’alchimia della carbonatazione che produce cristalli di colore, prismi di sale, che affiorano verso la superficie: dice che l’affresco “cresce in avanti”. La sua ricerca riguarda il colore segreto, la complicità profonda, non negoziabile (per questo, anche, aristocratica e non borghese) che lo lega al processo. Il pittore e il colore ingaggiano ogni volta, ad ogni cimento, una sfida, un rito di scoperta. Si tratta di un “lavoro al buio”: il pittore lavora, calcola, predispone e mentre egli fa, il colore indietreggia, si nasconde per poi, con l’aria di un giorno, comparire e dire la sua verità. Sulle prove d’affresco si è temprata, e allo stesso tempo capovolta, la chiave metafisica e contemplativa della pittura di Beraldo. Nelle nature morte entro paesaggi lo spazio, immoto e antinaturalistico, è privo di qualsivoglia relazione narrativa con il piano di fondo. La partitura delle forme è sintassi spaziale, è disposizione cromatica, orchestrazione di stesure, tessitura in piano dei colori. E’ pura composizione, che tuttavia non elimina il valore evocativo delle forme oggettuali usate come radar per intercettare la varietà dei colori. Nell’affresco tale assunto diviene trasparente: la scelta tematica appare, in modo ancor più marcato vista l’aulicità del medium, come transito formale per verifiche squisitamente pittoriche. Beraldo ricorre alla citazione per ragioni tutte interne al filo del suo pensiero: quel dettato di forme rigorose, che guardano alla geometria non meno che ai pigmenti, ha perso comunque l’innocenza sulla via della storia. La chiarezza di una formula, la natura morta con solidi geometrici, bottiglie, uova e conchiglie, appartiene ai Maestri del Novecento come, poniamo, lo spazio architettonico a quelli del Rinascimento. Ad essi appartiene anche il recupero dell’affresco come magistero pedagogico e celebrativo. Un pittore che rimedita sulle tecniche e le vocazioni della pittura del Novecento dei grandi maestri, non può che vivere questa avventura come una sfida, una partita aperta con la sovrana inattualità dell’affresco e della natura morta. La citazione tuttavia non è inerte, l’indipendenza della formula non è stereotipo, ma tema. Tema che diventa motivo di accordo compositivo. E qui sta la natura originale dell’idioma pittorico di Beraldo e solo partendo da qui si riesce a comprendere appieno gli sviluppi successivi della sua pittura. Se fosse stata solo citazione, cioè prelevata come spoglia iconica dal bacino delle immagini a disposizione del vorace occhio contemporaneo, avrebbe lavorato sul clichè e costruito la sua originalità, semmai, sull’ossessione visiva. Invece quel riporto tematico è ragione prima, è pretesto di un’originale tessitura pittorica e dunque rivissuto come varietas e non come vanitas, come fonte e non come memento. Il concetto della vitalità spaziale e cromatica del richiamo iconografico è presente, in vario modo, in tutti i critici che si sono occupati della pittura di Beraldo. Quando parliamo di vitalità intendiamo la verifica, la riapertura di credito pittorico, non alludiamo a qualche forma di energia espressiva che il rigore formale domina sino agli anni duemila con precisa intenzione. Beraldo dipinge nature morte e paesaggi alla stregua di un’ipotesi di lavoro, come se stesse controllando i fondamenti, fissando campi e orizzonti di evenienze. Solo praticando e verificando tecniche e mezzi espressivi e rafforzando, nella ripetizione variata, l’ordito cromatico potrà, negli anni, sconfinare in altri e ben diversi dominî espressivi sino a capovolgere il dettato originario. Le ombre diventeranno lacerti di segno, le luci accensioni locali e i colori si libreranno con meditata gestualità ancorata agli indizi segnici. La compattezza delle forme, della quale tuttavia si avvertiva l’intimo brusio, è stata dunque un lungo e fecondo antefatto alla libertà della composizione che si affermerà nel corso del primo decennio del Duemila. Lo scioglimento dei vincoli formali avverrà all’interno dello strappo d’affresco, il che ha qualcosa di innaturale, di molto sottile e provocatorio. Proprio là dove, più che in ogni altra piega della storia dell’arte, avvenne la fissazione minerale delle forme si manifesta l’idioma informale. Quinte dinamiche di polifonie cromatiche trascolorano le une nelle altre, si accendono e si velano, sfumano, si effondono, simulano l’assorbimento del supporto. In altre parole, trattandosi di affresco, ingannano l’occhio, prendono per la coda le aspettative dell’intenditore riguardo al medium. In questa sperimentazione si può ravvisare una specie di malizia concettuale che va nella direzione di rendere pur sempre omaggio al colore e alle sue infinite potenzialità, alle sue metamorfosi. Nell’ultima stagione è il colore stesso a prendere l’iniziativa della sua apparizione e della sua narrazione. E’ il colore come luce sensibile, come spirito di una materia sottile che sparisce nel darlo alla luce, a dettare il verso della composizione; è il gradiente cromatico, timbro e frequenza, a promuovere andamenti, gesti orientati e trasalimenti. Con o senza cenni grafici di orientamento visivo e mnemonico che possono affiorare nel subbuglio delle partiture cromatiche. Ora si, il rosso irrompe, il giallo dilaga, gli azzurri si inebriano dei sussurri dei colori caldi stemperandosi verso l’ampia gamma dell’indaco e del viola. Tutto esplode eppure, tout se tient. Si coglie, infatti, anche nei dipinti più liberi, più gestuali, un sotterraneo equilibrio, un senso di ordine remoto che offre scampo all’indicibile. Il colore possiede una sua forma o, se non una forma, una sede, un valore di posizione, un peso specifico, una voce in quel punto nella vertigine della libertà. Niente è gratuito, casuale; quella straripante libertà arriva da lontano, arriva dall’opposto. L’antico rigore è alle corde ma l’innocenza è coltivata, e non per questo meno felice. Ciò che conquista è il disincanto che consente tutta questa libertà, di farsi e disfarsi, dei moti dei colori. Nel papier collé il gioco si fa scoperto quando la faglia dello strappo simula pendii, evoca distanze, traccia illusioni prospettiche, lontananze. Dal gioco dei collages, alla meraviglia delle paste vitree: ormai va in scena la lighteness del puro godimento estetico, senza remore. Alla fine di un lungo percorso si arriva dunque al principio, secondo un’antica logica che collega la sapienza, al ritorno all’infanzia. Come dire: dalla ricerca all’incanto, l’una rende ragione dell’altro. Con la benedizione del Novecento Italiano.
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